Sandro Sproccati
"Dal 2001 circa il mio lavoro si è progressivamente asciugato, tralasciando l'interesse per la materia e il plasticismo delle forme, incentrandosi sulla dialettica tra colore e immagine, o meglio sull'indagine delle minime variazioni percettive che questi due poli possono avere. Attraverso successive sovrapposizioni di velature monocrome l'immagine viene quasi azzerata in modo da emergere lentamente come ombra, traccia dal fondo. Questo processo richiama lo sguardo su un enigma che per essere svelato ha bisogno di un tempo diverso da quello che dedichiamo abitualmente allo zapping televisivo. E' per questi motivi che la mia attenzione si è soffermata sulla stringente contrapposizione tra la concezione contemporanea dell'idea di Tempo, legata a un consumo istantaneo delle cose, e il Tempo realmente necessario all'opera d'arte per comunicare dialetticamente con il fruitore"
Queste note chiariscono e pongono in evidenza l'aspetto forse più interessante della pittura (odierna) di Lello Torchia. Il problema che sollevano, infatti, riguarda ciò che potremmo definire la peculiarità del testo pittorico nel'ambito più ampio della produzione di immagini visive. Il Tempo di cui parlano - con riferimento esplicito alle dinamiche di fruizione dell'opera - non è, infatti, il "tempo-non-tempo" che sempre è implicato dal segno visuale come prerogativa irrinunciabile, ovvero in un conflitto decisivo con il "tempo-tempo" di altri sistemi semiotici (la scrittura, la musica, il cinema), bensì un nesso di "durata" che è pertinente alla pittura anche a prescindere dalla costitutiva assenza di cronicità del linguaggio visivo in generale. Come dire, insomma, che il dipinto - in quanto testo specifico - non appartiene né alla diacronia piena dei mezzi di comunicazione (appunto) diacronici, né tuttavia - e questo è il punto "forte" da cui muove la riflessione di Torchia - alla sincronia assoluta di quelli (appunto) sincronici.
Cercherò di spiegarmi. Un quadro, un'opera elaborata con pigmenti cromatici su un supporto (idealmente) bidimensionale, soggiace in prima battuta al principio della lettura simultanea - o costruzione sincronica del significato - che domina con le proprie leggi qualsiasi istanza di espressione visiva concepita come luogo unitario. Una tela, esattamente come una fotografia o un'immagine elettronica, esibisce necessariamente se stessa (in quanto veicolo di significato) nella chiave di una totalità istantanea che non contempla scansioni al proprio interno, e per la quale il "tempo di lettura" dipende solo da aspetti pratici del rapporto tra la complessità dell'opera e la facoltà dell'intelletto che vi si applica. E' evidente, in altri termini, che nulla dell'articolazione temporale di mezzi linguistici basati su catene discrete di elementi in successione (come quelle, ad esempio, di un brano musicale) entra di fatto, in modo attivo, in un singolo testo-immagine in quanto tale. Ciò vuol dire - se ancora non fosse chiaro - che io, fruitore, potrò leggere un certo "quadro" utilizzando un variabile lasso di tempo (più o meno esteso a seconda delle mie competenze, della mia volontà di comprensione, delle mie contingenti disposizioni d'animo) e che potrò leggerlo, nelle condizioni normali di ricezione del testo, muovendo lo sguardo sui suoi dettagli a mio piacere, senza alcun obbligo di percorso; mentre, al contrario, non potrò affatto fruire un pezzo musicale o un racconto in un tempo qualsiasi, partendo da qualsiasi punto e muovendomi come mi pare, giacché per queste strutture vi è sempre il problema di una diacronia da rispettare, di un "prima" e di un "dopo" duramente coercitivi ai fini del loro corretto funzionamento, di una serie di eventi da recepire in modo progressivo ed esattamente nell'ordine (diacronico) che l'autore ha prestabilito.
Considerazioni rudimentali. Banalità della semiologia moderna. Ma anche, bisognerà pur ammettere, evidenze già implicite nell'antichissima distinzione tra arti del tempo e arti dello spazio, da Aristotele in poi: laddove - magari semplificando un poco - si è per secoli sostenuto che le prime sono tali proprio nella misura in cui escludono la dimensione spaziale dal proprio campo di pertinenza e le seconde, in modo reciproco, sono tali esattamente poiché escludono la dimensione temporale dal loro. Come "discorso base", tale distinzione non fa una grinza, è semplicemente scontata... Forse lo è troppo, tuttavia, se alla pittura si vuole restituire una necessità e una dignità di linguaggio complesso che la conduca al di là di un semplice metodo di produzione di immagini, e che quindi possa rappresentare per essa una valida ragione di sussistenza in un'età antropologica (la nostra) in cui altri e tecnicamente più potenti "strumenti di comunicazione visiva" sembrerebbero aver tutte le ragioni per soppiantarla.
Ciò che l'ipotesi di Torchia introduce, o meglio ciò di cui la sua pittura si avvale facendone un perno di forza, si dà in effetti come ulteriore rispetto alle considerazioni di cui sopra, poiché azzarda, non a caso, la questione della "ulteriorità dell'immagine pittorica" rispetto allo statuto sincronico dei sistemi segnico-visuali in generale. Allorché i dipinti di Torchia si apprestano (tramite "successive sovrapposizioni di velature") a far "emergere lentamente come ombra, traccia dal fondo" immagini precedentemente "azzerate", è chiaro che essi vanno a cercare, da parte dell'osservatore, una collaborazione indispensabile allo sprigionarsi delle proprie capacità di produrre senso; ed è palese che quelle immagini si danno al loro fruitore come entità che non pre-esistono affatto al suo intervento o anche come segni (sogni) che risulteranno pienamente espressi solo dopo che un lavoro di scavo (e di progressiva messa in luce) si sarà dispiegato verso il prodursi del loro "enigma", ossia presso l'ancòra muta superficie del quadro che li genera.
In tale dialettica, istituita tra il dipinto e lo sguardo che lo percorre, e incardinata dunque su un "lavoro" di penetrazione richiesto, parrebbe non tanto celarsi l'esigenza di una rinuncia da parte dell'immagine alle proprie prerogative di atto sincronico, quanto piuttosto di recupero di una dimensione temporale aggiunta. Le opere in questione, carte o tele che siano, non presentano complicazioni iconografiche di sorta, non poggiano per nulla su una "narratività" forzata (come certe tavole a episodi multipli in un luogo unitario, nel Quattrocento fiammingo) o su una dislocazione dei punti di vista prospettici atta a indurre una lettura per fasi successive (come nella strepitosa trovata di Hans Holbein il Giovane nel capolavoro della National Gallery di Londra) o su una macchinosità di costruzione per zone giustapposte (come nelle grandi tele di Kandinskij intorno al 1912-14, così vicine all'idea di "composizione musicale"). Anzi, si tratta sempre di quadri semplicissimi, basati su scarni elementi, figure singole e spesso volutamente sgraziate, elementari, appena sbozzate su una monocroma campitura, propense tutt'al più a dividere la superficie in due o tre zone; un segno, un'immagine, una figura, un "volto umano" per ciascuna opera. Ma esse - come dicevo - costringono il lettore a un'operazione di graduale, e pertanto cronologicamente estesa, ricerca.
E di adesione profonda: chiedono di essere fatte emergere poco alla volta, e perfino in certa misura puntigliosamente create, dallo sguardo stesso che le scava e che le desidera...
In ciò consiste il recupero del Tempo di cui il loro autore parla e di cui, secondo la sua ipotesi, la pittura sempre deve parlare. Viene posto da tale recupero, infatti, il problema dell'origine della forma pittorica, del rapporto tra "figura" (o immagine) e materia cromatica, la relazione ineffabile tra segno e spazio. Occorre sottolineare che non è poi così ovvio che la superficie del quadro si coniughi, precipitandovi, in "immagine" - come la tradizione occidentale classica vorrebbe far credere. La conquista del segno iconico è sempre l'esito di un processo di volontà e di partecipazione psicologica, il prodotto un "gioco" nel quale l'osservatore deve accettare di intervenire. E l'immagine, in quanto evento linguistico, domanda sempre - per iniziare ad essere posseduta - una contemplazione attiva, uno sguardo che acconsenta a immergersi in essa: che voglia dunque incidere e perforare la superficie del quadro come sprofondando in una dimensione diversa e del tutto incomparabile a quella del vedere consueto e quotidiano.
Niente di più che accostamenti di zone colorate (fossero pure allestite per noi da un crudele Caravaggio o da un apoteotico Tiziano) percepirebbe il nostro occhio umano, troppo umano, se il suo osservatore, fattosi audace, non avesse deciso di "stare al gioco", di mettere a repentaglio se stesso , ovvero di "scorgere" - oltre la superficie, oltre l'attonita oggettualità del quadro - tutto ciò che, rilanciata la scommessa, vi si cela. E' questo, esattamente questo, il Tempo nella pittura e della pittura. Il lento emergere dell'immagine o, più generalmente del significato, oltre il limite, oltre la soglia di un mero strato di colore...
Così i dipinti di Torchia - banali o sublimi che siano - immaginano il meccanismo fondante dell'emersione del segno incrementandone la didattica epifania; e desiderano mostrarne la genesi grazie all'accettazione che il pittore opera del loro limite, ovvero dei propri limiti. Strabismo operativo, lenta operata ricerca di un luogo "al limite" tra il segno formato e la sua germinazione dalle pastoie della materia: le quali sono anche drammaticamente, agli esordi del secolo ventunesimo, le nebbie che la consapevolezza dell'anacronismo e dell'impossibilità hanno addensato nei paraggi del quadro.
Potrà la pittura sopravvivere alla propria trionfante obsolescenza? Potrà la forma del dipinto formularsi ancora - voglio dire: contro la sua stessa disillusione - in produzione di segno, e di sogno appunto, cioè di senso? Tale è la domanda che i dipinti di Lello Torchia formulano e alla quale (come è logico) non sanno affatto rispondere.
Queste note chiariscono e pongono in evidenza l'aspetto forse più interessante della pittura (odierna) di Lello Torchia. Il problema che sollevano, infatti, riguarda ciò che potremmo definire la peculiarità del testo pittorico nel'ambito più ampio della produzione di immagini visive. Il Tempo di cui parlano - con riferimento esplicito alle dinamiche di fruizione dell'opera - non è, infatti, il "tempo-non-tempo" che sempre è implicato dal segno visuale come prerogativa irrinunciabile, ovvero in un conflitto decisivo con il "tempo-tempo" di altri sistemi semiotici (la scrittura, la musica, il cinema), bensì un nesso di "durata" che è pertinente alla pittura anche a prescindere dalla costitutiva assenza di cronicità del linguaggio visivo in generale. Come dire, insomma, che il dipinto - in quanto testo specifico - non appartiene né alla diacronia piena dei mezzi di comunicazione (appunto) diacronici, né tuttavia - e questo è il punto "forte" da cui muove la riflessione di Torchia - alla sincronia assoluta di quelli (appunto) sincronici.
Cercherò di spiegarmi. Un quadro, un'opera elaborata con pigmenti cromatici su un supporto (idealmente) bidimensionale, soggiace in prima battuta al principio della lettura simultanea - o costruzione sincronica del significato - che domina con le proprie leggi qualsiasi istanza di espressione visiva concepita come luogo unitario. Una tela, esattamente come una fotografia o un'immagine elettronica, esibisce necessariamente se stessa (in quanto veicolo di significato) nella chiave di una totalità istantanea che non contempla scansioni al proprio interno, e per la quale il "tempo di lettura" dipende solo da aspetti pratici del rapporto tra la complessità dell'opera e la facoltà dell'intelletto che vi si applica. E' evidente, in altri termini, che nulla dell'articolazione temporale di mezzi linguistici basati su catene discrete di elementi in successione (come quelle, ad esempio, di un brano musicale) entra di fatto, in modo attivo, in un singolo testo-immagine in quanto tale. Ciò vuol dire - se ancora non fosse chiaro - che io, fruitore, potrò leggere un certo "quadro" utilizzando un variabile lasso di tempo (più o meno esteso a seconda delle mie competenze, della mia volontà di comprensione, delle mie contingenti disposizioni d'animo) e che potrò leggerlo, nelle condizioni normali di ricezione del testo, muovendo lo sguardo sui suoi dettagli a mio piacere, senza alcun obbligo di percorso; mentre, al contrario, non potrò affatto fruire un pezzo musicale o un racconto in un tempo qualsiasi, partendo da qualsiasi punto e muovendomi come mi pare, giacché per queste strutture vi è sempre il problema di una diacronia da rispettare, di un "prima" e di un "dopo" duramente coercitivi ai fini del loro corretto funzionamento, di una serie di eventi da recepire in modo progressivo ed esattamente nell'ordine (diacronico) che l'autore ha prestabilito.
Considerazioni rudimentali. Banalità della semiologia moderna. Ma anche, bisognerà pur ammettere, evidenze già implicite nell'antichissima distinzione tra arti del tempo e arti dello spazio, da Aristotele in poi: laddove - magari semplificando un poco - si è per secoli sostenuto che le prime sono tali proprio nella misura in cui escludono la dimensione spaziale dal proprio campo di pertinenza e le seconde, in modo reciproco, sono tali esattamente poiché escludono la dimensione temporale dal loro. Come "discorso base", tale distinzione non fa una grinza, è semplicemente scontata... Forse lo è troppo, tuttavia, se alla pittura si vuole restituire una necessità e una dignità di linguaggio complesso che la conduca al di là di un semplice metodo di produzione di immagini, e che quindi possa rappresentare per essa una valida ragione di sussistenza in un'età antropologica (la nostra) in cui altri e tecnicamente più potenti "strumenti di comunicazione visiva" sembrerebbero aver tutte le ragioni per soppiantarla.
Ciò che l'ipotesi di Torchia introduce, o meglio ciò di cui la sua pittura si avvale facendone un perno di forza, si dà in effetti come ulteriore rispetto alle considerazioni di cui sopra, poiché azzarda, non a caso, la questione della "ulteriorità dell'immagine pittorica" rispetto allo statuto sincronico dei sistemi segnico-visuali in generale. Allorché i dipinti di Torchia si apprestano (tramite "successive sovrapposizioni di velature") a far "emergere lentamente come ombra, traccia dal fondo" immagini precedentemente "azzerate", è chiaro che essi vanno a cercare, da parte dell'osservatore, una collaborazione indispensabile allo sprigionarsi delle proprie capacità di produrre senso; ed è palese che quelle immagini si danno al loro fruitore come entità che non pre-esistono affatto al suo intervento o anche come segni (sogni) che risulteranno pienamente espressi solo dopo che un lavoro di scavo (e di progressiva messa in luce) si sarà dispiegato verso il prodursi del loro "enigma", ossia presso l'ancòra muta superficie del quadro che li genera.
In tale dialettica, istituita tra il dipinto e lo sguardo che lo percorre, e incardinata dunque su un "lavoro" di penetrazione richiesto, parrebbe non tanto celarsi l'esigenza di una rinuncia da parte dell'immagine alle proprie prerogative di atto sincronico, quanto piuttosto di recupero di una dimensione temporale aggiunta. Le opere in questione, carte o tele che siano, non presentano complicazioni iconografiche di sorta, non poggiano per nulla su una "narratività" forzata (come certe tavole a episodi multipli in un luogo unitario, nel Quattrocento fiammingo) o su una dislocazione dei punti di vista prospettici atta a indurre una lettura per fasi successive (come nella strepitosa trovata di Hans Holbein il Giovane nel capolavoro della National Gallery di Londra) o su una macchinosità di costruzione per zone giustapposte (come nelle grandi tele di Kandinskij intorno al 1912-14, così vicine all'idea di "composizione musicale"). Anzi, si tratta sempre di quadri semplicissimi, basati su scarni elementi, figure singole e spesso volutamente sgraziate, elementari, appena sbozzate su una monocroma campitura, propense tutt'al più a dividere la superficie in due o tre zone; un segno, un'immagine, una figura, un "volto umano" per ciascuna opera. Ma esse - come dicevo - costringono il lettore a un'operazione di graduale, e pertanto cronologicamente estesa, ricerca.
E di adesione profonda: chiedono di essere fatte emergere poco alla volta, e perfino in certa misura puntigliosamente create, dallo sguardo stesso che le scava e che le desidera...
In ciò consiste il recupero del Tempo di cui il loro autore parla e di cui, secondo la sua ipotesi, la pittura sempre deve parlare. Viene posto da tale recupero, infatti, il problema dell'origine della forma pittorica, del rapporto tra "figura" (o immagine) e materia cromatica, la relazione ineffabile tra segno e spazio. Occorre sottolineare che non è poi così ovvio che la superficie del quadro si coniughi, precipitandovi, in "immagine" - come la tradizione occidentale classica vorrebbe far credere. La conquista del segno iconico è sempre l'esito di un processo di volontà e di partecipazione psicologica, il prodotto un "gioco" nel quale l'osservatore deve accettare di intervenire. E l'immagine, in quanto evento linguistico, domanda sempre - per iniziare ad essere posseduta - una contemplazione attiva, uno sguardo che acconsenta a immergersi in essa: che voglia dunque incidere e perforare la superficie del quadro come sprofondando in una dimensione diversa e del tutto incomparabile a quella del vedere consueto e quotidiano.
Niente di più che accostamenti di zone colorate (fossero pure allestite per noi da un crudele Caravaggio o da un apoteotico Tiziano) percepirebbe il nostro occhio umano, troppo umano, se il suo osservatore, fattosi audace, non avesse deciso di "stare al gioco", di mettere a repentaglio se stesso , ovvero di "scorgere" - oltre la superficie, oltre l'attonita oggettualità del quadro - tutto ciò che, rilanciata la scommessa, vi si cela. E' questo, esattamente questo, il Tempo nella pittura e della pittura. Il lento emergere dell'immagine o, più generalmente del significato, oltre il limite, oltre la soglia di un mero strato di colore...
Così i dipinti di Torchia - banali o sublimi che siano - immaginano il meccanismo fondante dell'emersione del segno incrementandone la didattica epifania; e desiderano mostrarne la genesi grazie all'accettazione che il pittore opera del loro limite, ovvero dei propri limiti. Strabismo operativo, lenta operata ricerca di un luogo "al limite" tra il segno formato e la sua germinazione dalle pastoie della materia: le quali sono anche drammaticamente, agli esordi del secolo ventunesimo, le nebbie che la consapevolezza dell'anacronismo e dell'impossibilità hanno addensato nei paraggi del quadro.
Potrà la pittura sopravvivere alla propria trionfante obsolescenza? Potrà la forma del dipinto formularsi ancora - voglio dire: contro la sua stessa disillusione - in produzione di segno, e di sogno appunto, cioè di senso? Tale è la domanda che i dipinti di Lello Torchia formulano e alla quale (come è logico) non sanno affatto rispondere.