Giuseppe Rago
Guglielmo di Saint Thierry nel suo De natura et dignitate amoris postula il mite colloquium, altrove tradotto come "colloquio discreto", tra gli amanti come prezioso per conoscere ciò che è necessario all’anima e al corpo di coloro che nutrono l’amore; e nel suo commento al Cantico dei Cantici lo stesso autore ritorna sul colloquio tra lo Sposo e la Sposa, cui noi stessi siamo chiamati a partecipare: "infatti quando si parla di sentimenti solo chi prova dei sentimenti analoghi può capire facilmente quello che viene detto".
Più da presso, e laicamente, Norberto Bobbio, nel suo Elogio della mitezza, indica in quest’ultima la più impolitica delle virtù, ma pure la più civile in senso ampio e alto, unico argine possibile alle degenerazioni della politica; il mite non è remissivo, ma è colui che sceglie di essere eticamente diverso: è il suo saper dire di no con fermezza che segna il passaggio dalla mansuetudine come inclinazione alla mitezza come virtù.
La mitezza e il colloquio, esercizi eticamente necessari: ecco i parametri entro cui Stefano Frascarelli e Lello Torchia, provenendo da regioni – non solo geografiche – diverse, hanno deciso di muoversi.
Credo infatti che l’esercizio della mitezza nella pratica del colloquio necessario, posto in relazione con storie e culture diverse, dia il senso a questa mostra nel Cortile di Francesco. Se la verità esiste, infatti, essa, parafrasando papa Francesco, non è cosa ferma e irrelata: la verità è processo, è un cammino; la verità è relazione, mite colloquium, appunto.
E Lello e Stefano intessono il loro garbato dialogo, il loro personalissimo mite "cortile", nelle sale del piano nobile del cinquecentesco palazzo Bartocci Fontana. Il salone principale, in cui si distende il "quattro mani", non è solo un sontuoso contenitore settecentesco che si offre per la prima volta alla vista del visitatore: alle pareti tele di qualità vedono affrontarsi soggetti mitologici e religiosi; e – tra questi – temi vetero e neotestamentari: è dunque per noi auspice ideale, questo ciclo di spiccato sincretismo culturale, certo non infrequente per le committenze di quel tempo, ma che pure ci dice di una spregiudicata contaminazione in un’età già così alta: un colloquium, esso stesso, tra culture e matrici diverse; quello stesso colloquio che, in fondo, anima Il cortile di Francesco e le intime ragioni di questa mostra.
Stefano e Lello, anzitutto: senz’altro, si diceva, provengono da terre diverse, hanno solcato campi poetici ed espressivi molto differenti. E poco importa chi abbia percorso sentieri più o meno accademici, più o meno aperti alla prassi della contaminazione; per chi – dei due – pesino di più categorie come "classico" o "tradizione", sia pure ancorate al postmoderno; non staremo allora qui a raccontare dell’incontro tra astrazione e figurativo, lasciando che – in qualche modo – l’evidenza parli da sé; solo diremo della comunanza tra i due nella relazione tra creazione e materia; una relazione che sta nella sottrazione, "per via di levare", piuttosto che di aggiungere, che evita la manipolazione o la esercita per assecondare dinamiche fattuali tutte intrinseche alla materia stessa. Stefano e Lello perciò si sono incontrati con intelligenza, ma pure con determinazione: hanno scelto di farlo sulle tracce di confine dei loro rispettivi percorsi, di lavorare ai margini, là dove le identità trascolorano e persino i confini, nella dissolvenza, gettano vicendevolmente ponti. In questo colloquio, mite e perciò fortissimo, le terre più fertili sono quelle marginali: Frascarelli gioca ad esempio consapevolmente col discrimine tra casualità e progetto, tra intenzionalità creativa e autonomia dei processi: supporti e medium di derivazione industriale (smalti su plexiglass) producono, per apparente paradosso, risultati profondamente intrinseci alla naturalezza, nell’esplosione o nella rarefazione cangiante di luci e colori. Nei lavori più antichi (e qui esposti – come per Torchia – in una saletta attigua per completezza di catalogo) Stefano interveniva solo inclinando il supporto per assecondare il rapprendersi degli smalti; un processo rispettoso di tempi e modi estranei alla volontà dell’artista (da lui stesso definito "narratore onnisciente" o "voce fuori campo", ma non protagonista o tanto meno personaggio della storia). Nella produzione più recente l’intervento, che c’è, si limita alla picchiettatura incalzante delle dita che contattano direttamente il supporto, sporcandosi di materia pittorica: i due pezzi nel salone (120 x150 cm.), collocati orizzontalmente ma rialzati da terra, sono accompagnati da una retroilluminazione che enfatizza le conglomerazioni e gli addensamenti ma pure le improvvise aperture, le mancanze del colore che, complice proprio la fonte luminosa, trasformano specifici punti del supporto in squarci improvvisi di illuminazione epifanica; di più, mettono in gioco il supporto – e ciò che c’è al di là – col processo di creazione e di fruizione in un trascorrere osmotico, senza più filtri o barriere.
E fuori da confini certi e asseriti, nel trasfondere fluido, metaforicamente precario ma pure straordinariamente fertile dell’incertezza sta la grande istallazione di Torchia nel salone centrale: significativamente "Senza titolo" (250x25x80 cm circa), presenta due teste messe a basculare su una tavola da ponteggio posta su una precario, malfermo perno di un tronco d’albero dal taglio asimmetrico; a dire della precarietà degli stati di transizione, dell’incertezza, ma pure della vitale potenzialità delle trasformazioni.
Lello continua il suo lavoro in sottotraccia e sui margini delle asserzioni, della parola spacciata per assioma di verità. Lavora l’argilla cruda, ultimamente, secondo un approccio in fondo simile al modo in cui Stefano interviene sugli smalti: in entrambi i casi la materia, al termine del processo creativo, appare già potentemente evocativa in sé, recando scarse, eppure significative tracce di manipolazione intenzionale. Così nella sala piccola, in una collocazione apparentemente defilata, Torchia pone le sue teste "Errantes": poggiate su un tavolo anch’esso "provvisorio", esse sembrano porsi simbolicamente in moto ordinato, con ieraticità processionale; è un cammino che è certamente interiore, se inteso come cambiamento di sé, ma pure agito, se esso produce trasformazione, rimessa in moto, attivazione di processi di tutto ciò che – da quel cammino – è attraversato. Quei pochi, scarni gesti sui volti d’argilla, sono proprio il segno di tale trasformazione, interiore, ma anche sociale e – direi – beuysianamente ambientale. Gli stralci dei disegni e le cose conficcate rimandano alla dispersione, alla frammentarietà, ma pure alla ricchezza polisemica di questi tempi anideologici e plurali.
Ciò che è ai margini e scolora spesso rifulge e rende chiaro il senso assai più di ciò che è in mezzo al sentiero; il cammino sta dunque nell’abbandonare il certo per l’incerto, la rassicurante fissità epicentrale per viaggiare nella periferia frastagliata delle definizioni nette: l’istallazione a quattro mani in re ipsa, il Mite colloquium scaturito dal confronto vero, cioè dal progetto condiviso dei due autori nella sala centrale è il fulcro su cui converge e da cui parte tutta la mostra. Qui le mani in argilla di Torchia, ai piedi dell’esuberante tessitura cromatica dello smalto rosso di Stefano, nella loro drammatica, ma non lacerata parzialità, sono avvolte in brandelli di disegno di una Crocifissione tracciata ad acquarello, rosso anch’esso. Ancora frammentarietà, tuttavia non urgentemente rappresentata, ma rarefatta, quasi trasfusa sul piano dell’icona. Verrebbe da pensare – lo evoca il possibile simbolismo del rosso – a una Addolorata ai piedi del Crocifisso, sia pure per pezzi, o parti. Eppure l’opera rifugge da metafore scoperte, le due parti sono distanti e pure in contatto: tanto assertive e mute, iconiche e drammaticamente parziali, le prime, quanto sontuosa, cangiante come un paesaggio declinato nell’astrattismo espressivo e cromatico la seconda. Eppure quel rallentamento nel rapprendersi dello smalto, quel supporto scoperto e nudo, in qualche modo muto, dialoga paradossalmente con la mutezza asciutta di quelle mani in basso: l’illuminazione sta ancora nella rarefazione, nel rallentare, nella precarietà e nella parzialità dei margini, nel "levare" e nel tacere.
Più da presso, e laicamente, Norberto Bobbio, nel suo Elogio della mitezza, indica in quest’ultima la più impolitica delle virtù, ma pure la più civile in senso ampio e alto, unico argine possibile alle degenerazioni della politica; il mite non è remissivo, ma è colui che sceglie di essere eticamente diverso: è il suo saper dire di no con fermezza che segna il passaggio dalla mansuetudine come inclinazione alla mitezza come virtù.
La mitezza e il colloquio, esercizi eticamente necessari: ecco i parametri entro cui Stefano Frascarelli e Lello Torchia, provenendo da regioni – non solo geografiche – diverse, hanno deciso di muoversi.
Credo infatti che l’esercizio della mitezza nella pratica del colloquio necessario, posto in relazione con storie e culture diverse, dia il senso a questa mostra nel Cortile di Francesco. Se la verità esiste, infatti, essa, parafrasando papa Francesco, non è cosa ferma e irrelata: la verità è processo, è un cammino; la verità è relazione, mite colloquium, appunto.
E Lello e Stefano intessono il loro garbato dialogo, il loro personalissimo mite "cortile", nelle sale del piano nobile del cinquecentesco palazzo Bartocci Fontana. Il salone principale, in cui si distende il "quattro mani", non è solo un sontuoso contenitore settecentesco che si offre per la prima volta alla vista del visitatore: alle pareti tele di qualità vedono affrontarsi soggetti mitologici e religiosi; e – tra questi – temi vetero e neotestamentari: è dunque per noi auspice ideale, questo ciclo di spiccato sincretismo culturale, certo non infrequente per le committenze di quel tempo, ma che pure ci dice di una spregiudicata contaminazione in un’età già così alta: un colloquium, esso stesso, tra culture e matrici diverse; quello stesso colloquio che, in fondo, anima Il cortile di Francesco e le intime ragioni di questa mostra.
Stefano e Lello, anzitutto: senz’altro, si diceva, provengono da terre diverse, hanno solcato campi poetici ed espressivi molto differenti. E poco importa chi abbia percorso sentieri più o meno accademici, più o meno aperti alla prassi della contaminazione; per chi – dei due – pesino di più categorie come "classico" o "tradizione", sia pure ancorate al postmoderno; non staremo allora qui a raccontare dell’incontro tra astrazione e figurativo, lasciando che – in qualche modo – l’evidenza parli da sé; solo diremo della comunanza tra i due nella relazione tra creazione e materia; una relazione che sta nella sottrazione, "per via di levare", piuttosto che di aggiungere, che evita la manipolazione o la esercita per assecondare dinamiche fattuali tutte intrinseche alla materia stessa. Stefano e Lello perciò si sono incontrati con intelligenza, ma pure con determinazione: hanno scelto di farlo sulle tracce di confine dei loro rispettivi percorsi, di lavorare ai margini, là dove le identità trascolorano e persino i confini, nella dissolvenza, gettano vicendevolmente ponti. In questo colloquio, mite e perciò fortissimo, le terre più fertili sono quelle marginali: Frascarelli gioca ad esempio consapevolmente col discrimine tra casualità e progetto, tra intenzionalità creativa e autonomia dei processi: supporti e medium di derivazione industriale (smalti su plexiglass) producono, per apparente paradosso, risultati profondamente intrinseci alla naturalezza, nell’esplosione o nella rarefazione cangiante di luci e colori. Nei lavori più antichi (e qui esposti – come per Torchia – in una saletta attigua per completezza di catalogo) Stefano interveniva solo inclinando il supporto per assecondare il rapprendersi degli smalti; un processo rispettoso di tempi e modi estranei alla volontà dell’artista (da lui stesso definito "narratore onnisciente" o "voce fuori campo", ma non protagonista o tanto meno personaggio della storia). Nella produzione più recente l’intervento, che c’è, si limita alla picchiettatura incalzante delle dita che contattano direttamente il supporto, sporcandosi di materia pittorica: i due pezzi nel salone (120 x150 cm.), collocati orizzontalmente ma rialzati da terra, sono accompagnati da una retroilluminazione che enfatizza le conglomerazioni e gli addensamenti ma pure le improvvise aperture, le mancanze del colore che, complice proprio la fonte luminosa, trasformano specifici punti del supporto in squarci improvvisi di illuminazione epifanica; di più, mettono in gioco il supporto – e ciò che c’è al di là – col processo di creazione e di fruizione in un trascorrere osmotico, senza più filtri o barriere.
E fuori da confini certi e asseriti, nel trasfondere fluido, metaforicamente precario ma pure straordinariamente fertile dell’incertezza sta la grande istallazione di Torchia nel salone centrale: significativamente "Senza titolo" (250x25x80 cm circa), presenta due teste messe a basculare su una tavola da ponteggio posta su una precario, malfermo perno di un tronco d’albero dal taglio asimmetrico; a dire della precarietà degli stati di transizione, dell’incertezza, ma pure della vitale potenzialità delle trasformazioni.
Lello continua il suo lavoro in sottotraccia e sui margini delle asserzioni, della parola spacciata per assioma di verità. Lavora l’argilla cruda, ultimamente, secondo un approccio in fondo simile al modo in cui Stefano interviene sugli smalti: in entrambi i casi la materia, al termine del processo creativo, appare già potentemente evocativa in sé, recando scarse, eppure significative tracce di manipolazione intenzionale. Così nella sala piccola, in una collocazione apparentemente defilata, Torchia pone le sue teste "Errantes": poggiate su un tavolo anch’esso "provvisorio", esse sembrano porsi simbolicamente in moto ordinato, con ieraticità processionale; è un cammino che è certamente interiore, se inteso come cambiamento di sé, ma pure agito, se esso produce trasformazione, rimessa in moto, attivazione di processi di tutto ciò che – da quel cammino – è attraversato. Quei pochi, scarni gesti sui volti d’argilla, sono proprio il segno di tale trasformazione, interiore, ma anche sociale e – direi – beuysianamente ambientale. Gli stralci dei disegni e le cose conficcate rimandano alla dispersione, alla frammentarietà, ma pure alla ricchezza polisemica di questi tempi anideologici e plurali.
Ciò che è ai margini e scolora spesso rifulge e rende chiaro il senso assai più di ciò che è in mezzo al sentiero; il cammino sta dunque nell’abbandonare il certo per l’incerto, la rassicurante fissità epicentrale per viaggiare nella periferia frastagliata delle definizioni nette: l’istallazione a quattro mani in re ipsa, il Mite colloquium scaturito dal confronto vero, cioè dal progetto condiviso dei due autori nella sala centrale è il fulcro su cui converge e da cui parte tutta la mostra. Qui le mani in argilla di Torchia, ai piedi dell’esuberante tessitura cromatica dello smalto rosso di Stefano, nella loro drammatica, ma non lacerata parzialità, sono avvolte in brandelli di disegno di una Crocifissione tracciata ad acquarello, rosso anch’esso. Ancora frammentarietà, tuttavia non urgentemente rappresentata, ma rarefatta, quasi trasfusa sul piano dell’icona. Verrebbe da pensare – lo evoca il possibile simbolismo del rosso – a una Addolorata ai piedi del Crocifisso, sia pure per pezzi, o parti. Eppure l’opera rifugge da metafore scoperte, le due parti sono distanti e pure in contatto: tanto assertive e mute, iconiche e drammaticamente parziali, le prime, quanto sontuosa, cangiante come un paesaggio declinato nell’astrattismo espressivo e cromatico la seconda. Eppure quel rallentamento nel rapprendersi dello smalto, quel supporto scoperto e nudo, in qualche modo muto, dialoga paradossalmente con la mutezza asciutta di quelle mani in basso: l’illuminazione sta ancora nella rarefazione, nel rallentare, nella precarietà e nella parzialità dei margini, nel "levare" e nel tacere.