Loredana Rea
Navigando con agilità tra un concettualismo carico di domande in cerca di risposte e un incanto poetico che trascina con sé il sapore inconfondibile della classicità, Lello Torchia si interroga con raffinata sensibilità sulla reale possibilità di coniugare la tradizione e la sperimentazione, in una declinazione capace di restituire a un linguaggio attento agli esiti della contemporaneità la complessità degli assunti iniziali.
È cosi che le tracce di una tradizione, che offre imprescindibili certezze, e la necessità di una sperimentazione, che aprendo alla pluralità problematica di una progettualità sempre rinnovata deve esplorare altri territori di ricerca, si abbracciano in una tensione armonica, a materializzare i processi metamorfici della creatività artistica. Entrambe giocando con gli slittamenti di significato e di immagini, che seguono uno spartito intessuto di intermezzi compositivi e formali di differente natura, ordiscono la trama robusta di un pensiero visivo, in cui ogni elemento sembra aver trovato il proprio posto. La pittura e la scultura tout court allora si trasformano inevitabilmente in interventi ambientali, articolati eppure minimali, capaci di ricondurre l’una all’altra le due metodologie espressive, sanare la distanza tra spazi immaginati e realtà e offrirsi non come esperienza estetica conclusa, quanto come un insieme di riflessioni in continuo divenire.
Per questa esposizione Torchia propone un’installazione profondamente emozionante, che rappresenta un organico sviluppo della necessità di connettere le une alle altre pratiche operative caratterizzate da un’intrinseca coerenza di pensiero. Si tratta della messa in scena, raffinata ed essenziale, di un “un rito d’arte”, che offre la possibilità di esplorare orizzonti plurimi, in cui gli stimoli si sovrappongono, si intrecciano e contaminano per suggerire il desiderio di confrontarsi con l’infinito, abbandonandosi all’irrefrenabile vertigine della sua assolutezza, pur nella consapevolezza dell’inevitabile caducità.
Campeggia in una rarefatta penombra un grande dipinto (bitume su carta), illuminato dalla debole luce di una sola lampadina: su di esso un volo di falene, attratte inesorabilmente dalla luce, simboleggia la finitudine dell’essere e contemporaneamente il bisogno di superare i limiti imposti dalla natura umana, spingendosi verso un imponderabile altrove. Lo spazio si increspa nell’atmosfera densa e insieme rarefatta, in cui il pensiero insegue senza riuscire a braccarla l’intensità di forme elementari ed evocative, scelte per costruire un elogio dell’effimero e dell’eterno. È come se si potesse sentire sulla pelle il fremito sottile di uno sfarfallio che non può essere trattenuto nel suo avvitarsi su se stesso e contemporaneamente se si rimanesse in attesa, lasciandosi pervadere lentamente da una condizione di grazia e instabilità, perché non c’è ordine, né misura, equilibrio o simmetria ma un sentimento di sublime, che sposta ogni volta in avanti i limiti dell’ignoto, svelando l’incanto irresistibile legato al sogno di infinito, imprevedibile, rischioso, incommensurabile.
Non è un caso quindi che questo lavoro si proponga come una fragile e impalpabile epifania, sospesa tra vita e morte, presenza e assenza, matericità e dissolvimento: segni tutti del continuo divenire delle cose, pronti a sottrarre l’opera a ogni esigenza di rappresentazione, per aprirla a una dimensione sospesa tra l’irriducibilità del reale e tensioni metafisiche. Si offre allo sguardo come interrogativo che non può avere repliche, eppure sempre in attesa di cogliere un suggerimento che possa rendere comprensibile l’inesplicabile l’eternità dell’assoluto e l’impalpabile eppure manifesta fragilità del sé. Agisce sui sensi e attiva relazioni tra il tempo, l’individuo e il luogo, spingendo ognuno a naufragare in una spiazzante condizione di fugace delirio. Scuote le certezze, rende all’improvviso precaria la conoscenza del mondo e spinge ad addentrarsi in uno spazio mutevole, pronto a trasformarsi repentinamente nell’intensità di una percezione pulsante e discontinua, come la realtà dell’esistenza quotidiana, intessuta di sensazioni, visioni, passioni che determinano l’irripetibilità della sua bellezza.
È cosi che le tracce di una tradizione, che offre imprescindibili certezze, e la necessità di una sperimentazione, che aprendo alla pluralità problematica di una progettualità sempre rinnovata deve esplorare altri territori di ricerca, si abbracciano in una tensione armonica, a materializzare i processi metamorfici della creatività artistica. Entrambe giocando con gli slittamenti di significato e di immagini, che seguono uno spartito intessuto di intermezzi compositivi e formali di differente natura, ordiscono la trama robusta di un pensiero visivo, in cui ogni elemento sembra aver trovato il proprio posto. La pittura e la scultura tout court allora si trasformano inevitabilmente in interventi ambientali, articolati eppure minimali, capaci di ricondurre l’una all’altra le due metodologie espressive, sanare la distanza tra spazi immaginati e realtà e offrirsi non come esperienza estetica conclusa, quanto come un insieme di riflessioni in continuo divenire.
Per questa esposizione Torchia propone un’installazione profondamente emozionante, che rappresenta un organico sviluppo della necessità di connettere le une alle altre pratiche operative caratterizzate da un’intrinseca coerenza di pensiero. Si tratta della messa in scena, raffinata ed essenziale, di un “un rito d’arte”, che offre la possibilità di esplorare orizzonti plurimi, in cui gli stimoli si sovrappongono, si intrecciano e contaminano per suggerire il desiderio di confrontarsi con l’infinito, abbandonandosi all’irrefrenabile vertigine della sua assolutezza, pur nella consapevolezza dell’inevitabile caducità.
Campeggia in una rarefatta penombra un grande dipinto (bitume su carta), illuminato dalla debole luce di una sola lampadina: su di esso un volo di falene, attratte inesorabilmente dalla luce, simboleggia la finitudine dell’essere e contemporaneamente il bisogno di superare i limiti imposti dalla natura umana, spingendosi verso un imponderabile altrove. Lo spazio si increspa nell’atmosfera densa e insieme rarefatta, in cui il pensiero insegue senza riuscire a braccarla l’intensità di forme elementari ed evocative, scelte per costruire un elogio dell’effimero e dell’eterno. È come se si potesse sentire sulla pelle il fremito sottile di uno sfarfallio che non può essere trattenuto nel suo avvitarsi su se stesso e contemporaneamente se si rimanesse in attesa, lasciandosi pervadere lentamente da una condizione di grazia e instabilità, perché non c’è ordine, né misura, equilibrio o simmetria ma un sentimento di sublime, che sposta ogni volta in avanti i limiti dell’ignoto, svelando l’incanto irresistibile legato al sogno di infinito, imprevedibile, rischioso, incommensurabile.
Non è un caso quindi che questo lavoro si proponga come una fragile e impalpabile epifania, sospesa tra vita e morte, presenza e assenza, matericità e dissolvimento: segni tutti del continuo divenire delle cose, pronti a sottrarre l’opera a ogni esigenza di rappresentazione, per aprirla a una dimensione sospesa tra l’irriducibilità del reale e tensioni metafisiche. Si offre allo sguardo come interrogativo che non può avere repliche, eppure sempre in attesa di cogliere un suggerimento che possa rendere comprensibile l’inesplicabile l’eternità dell’assoluto e l’impalpabile eppure manifesta fragilità del sé. Agisce sui sensi e attiva relazioni tra il tempo, l’individuo e il luogo, spingendo ognuno a naufragare in una spiazzante condizione di fugace delirio. Scuote le certezze, rende all’improvviso precaria la conoscenza del mondo e spinge ad addentrarsi in uno spazio mutevole, pronto a trasformarsi repentinamente nell’intensità di una percezione pulsante e discontinua, come la realtà dell’esistenza quotidiana, intessuta di sensazioni, visioni, passioni che determinano l’irripetibilità della sua bellezza.