Giuseppe Rago
A presidio del centro antico, sulla collina di San Martino, il Claustro dell’Università “Suor Orsola Benincasa” è un autentico miracolo risparmiato (e cioè sottratto) al tumultuoso procedere della città: esso è stato spesso evocato come il negativo felice della metropoli che lo ospita, il controcanto silente del caos urbano; uno spazio, insomma, a cui è facile pensare come un’oasi nel deserto, un riparo rispetto alla dimensione agonistica del vivere cittadino, una pausa di sospensione, un approdo di silenzio e di sapere. Non a caso dunque il Claustro e la sua esuberante, rigogliosa connotazione naturale sono chiamati a essere non soltanto ambiente che accoglie “Refugio”, ma anche parte in causa di “Refugio” (una mostra frutto della collaborazione tra Lello Torchia e l’ong Cear - Comisión Española de Ayuda al Refugiado), a interagire con la sua dimensione concettuale e progettuale più profonda, divenendo - l’ambiente - parte di un’installazione più complessiva.
Il lavoro è lo sviluppo di un progetto, “Corner”: Lello aveva inteso lavorare sull’angolo, in cui (sto pensando a Irving Penn) si è messi alle strette (a volte si è “messi in un angolo”, no?), ma che è anche il perimetro entro il cui involucro ci si ripara; un guscio protettivo, un limite, ma anche un tetto (cui anche linguisticamente esso allude nella sua forma acuta), la casa da cui poter uscire, di cui tuttavia non poter fare a meno. Quest’idea iniziale si è arricchita di meditazioni ulteriori – e direi obbligate dai tempi – sul periodo di reclusione coatta che siamo stati chiamati a vivere “in forza” della pandemia. Il bozzolo protettivo può essere prigione o capanna, catena da cui si è ansiosi di liberarsi (per una comprensibile “pandemic fatigue”, ma spesso anche per una malintesa idea di libertà, sciolta dai vincoli di cura reciproca cui la pandemia ci obbliga); l’angolo è un “tetto sopra la testa”, ma anche capanna dalla quale si potrebbe non voler più uscire (e c’è una sindrome definita “della capanna”, appunto, per descrivere tutto questo).
Ed è quasi naturale che questa meditazione si completi poi con la riflessione sulle migrazioni di popoli – a cui siamo messi costantemente di fronte in una continua urgenza, in una attualità che non vuole passare, con la sua cogenza tumultuosa e drammatica, e farsi storia. Un’urgenza che spiega perché, dal mio punto di vista, le consuete sbozzature primordiali di volti e anatomie di Torchia qui diventino drammatiche cancellazioni dell’identità, brunite e cassate, di persone “senza volto” e senza nome, come si dice troppe volte a proposito dei profughi che solcano il Mediterrano e raggiungono – vivi o morti – le nostre coste. Qui allora un prisma metallico aggrappato all’albero contiene dei vestiti e due teste in gesso simili, dal volto brunito; là una testa di argilla cruda è poggiata su un tavolo in ferro ricoperto da un letto di lana – quasi un “cambiar pelle” del lungo andare “camminante”, o una transumanza umana, dal denso valore esistenziale; accanto a un tavolo in ferro è “installato” un cappotto che - preventivamente sepolto per settimane nel terreno - è ormai parte integrante della dimensione “vegetale” dell’ambiente del Claustro; una testa in gesso è abbracciata dai rami di un albero, in prossimità di un piccolo canneto, vicino al quale il ramo ricurvo accoglie, inglobandole, teorie di vestiti piegati a loro volta, sorvegliati da un volto in gesso annerito, quasi un rovesciamento drammatico della Venere degli stracci, della meditazione pistolettiana sulla bellezza. All’ingresso una scatola in ferro, protetta dalla copertura di una balla di paglia, accoglie un cuscino: la paglia, il cuscino alludono anch’essi all’andare, alla ricerca di un luogo in cui fermarsi, giacere e finalmente respirare. Delle teste in argilla cruda sono poi poggiate nel roseto su di un tavolo forato, filtro traspirante tra arte e realtà che si lascia attraversare – proprio da uno dei fori – da un ramo fiorito. Come in un rovesciamento del tòpos del giardino incantato, o “delle meraviglie”, infine, una testa muta (non) dondola su altalene d’acciaio.
Il claustrum è luogo chiuso, hortus conclusus, perimetro recintato dalle alte, vertiginose mura, uno spazio segnato dal confine elevato della meditazione; è dunque l’angolo in cui raggomitolare l’esistenza, la capanna pandemica, l’approdo protetto dopo il lungo andare, dunque il luogo più congeniale di una meditazione come quella descritta.
È uno spazio, si diceva, che non solo ospita, ma si fa carico delle opere esposte, anzi accolte in questo angolo di mondo, che si configura – oggi e per sempre – come spazio di accoglienza dell’anima migrante.
Il lavoro è lo sviluppo di un progetto, “Corner”: Lello aveva inteso lavorare sull’angolo, in cui (sto pensando a Irving Penn) si è messi alle strette (a volte si è “messi in un angolo”, no?), ma che è anche il perimetro entro il cui involucro ci si ripara; un guscio protettivo, un limite, ma anche un tetto (cui anche linguisticamente esso allude nella sua forma acuta), la casa da cui poter uscire, di cui tuttavia non poter fare a meno. Quest’idea iniziale si è arricchita di meditazioni ulteriori – e direi obbligate dai tempi – sul periodo di reclusione coatta che siamo stati chiamati a vivere “in forza” della pandemia. Il bozzolo protettivo può essere prigione o capanna, catena da cui si è ansiosi di liberarsi (per una comprensibile “pandemic fatigue”, ma spesso anche per una malintesa idea di libertà, sciolta dai vincoli di cura reciproca cui la pandemia ci obbliga); l’angolo è un “tetto sopra la testa”, ma anche capanna dalla quale si potrebbe non voler più uscire (e c’è una sindrome definita “della capanna”, appunto, per descrivere tutto questo).
Ed è quasi naturale che questa meditazione si completi poi con la riflessione sulle migrazioni di popoli – a cui siamo messi costantemente di fronte in una continua urgenza, in una attualità che non vuole passare, con la sua cogenza tumultuosa e drammatica, e farsi storia. Un’urgenza che spiega perché, dal mio punto di vista, le consuete sbozzature primordiali di volti e anatomie di Torchia qui diventino drammatiche cancellazioni dell’identità, brunite e cassate, di persone “senza volto” e senza nome, come si dice troppe volte a proposito dei profughi che solcano il Mediterrano e raggiungono – vivi o morti – le nostre coste. Qui allora un prisma metallico aggrappato all’albero contiene dei vestiti e due teste in gesso simili, dal volto brunito; là una testa di argilla cruda è poggiata su un tavolo in ferro ricoperto da un letto di lana – quasi un “cambiar pelle” del lungo andare “camminante”, o una transumanza umana, dal denso valore esistenziale; accanto a un tavolo in ferro è “installato” un cappotto che - preventivamente sepolto per settimane nel terreno - è ormai parte integrante della dimensione “vegetale” dell’ambiente del Claustro; una testa in gesso è abbracciata dai rami di un albero, in prossimità di un piccolo canneto, vicino al quale il ramo ricurvo accoglie, inglobandole, teorie di vestiti piegati a loro volta, sorvegliati da un volto in gesso annerito, quasi un rovesciamento drammatico della Venere degli stracci, della meditazione pistolettiana sulla bellezza. All’ingresso una scatola in ferro, protetta dalla copertura di una balla di paglia, accoglie un cuscino: la paglia, il cuscino alludono anch’essi all’andare, alla ricerca di un luogo in cui fermarsi, giacere e finalmente respirare. Delle teste in argilla cruda sono poi poggiate nel roseto su di un tavolo forato, filtro traspirante tra arte e realtà che si lascia attraversare – proprio da uno dei fori – da un ramo fiorito. Come in un rovesciamento del tòpos del giardino incantato, o “delle meraviglie”, infine, una testa muta (non) dondola su altalene d’acciaio.
Il claustrum è luogo chiuso, hortus conclusus, perimetro recintato dalle alte, vertiginose mura, uno spazio segnato dal confine elevato della meditazione; è dunque l’angolo in cui raggomitolare l’esistenza, la capanna pandemica, l’approdo protetto dopo il lungo andare, dunque il luogo più congeniale di una meditazione come quella descritta.
È uno spazio, si diceva, che non solo ospita, ma si fa carico delle opere esposte, anzi accolte in questo angolo di mondo, che si configura – oggi e per sempre – come spazio di accoglienza dell’anima migrante.