Jean Marie Duhamel
Due sculture senza orpelli, crude, come l’argilla che le anima. Disposte su due dei tre altari presenti nel perimetro del Tempio dedicato a Mithra: il dio della Luce degli antichi Persiani. Parlo di teste dalle sembianze umane, ricorrenti nell’opera di Lello Torchia fin dagli esordi (dalla seconda metà degli anni ’90) e divenute quasi peculiari della produzione più recente. Stavolta rappresentano l’idolo, Mithra, e il suo gemello cristiano Gesù Cristo o, anche, per affinità – potremmo dire addirittura fratellanza – tutti gli uomini e le donne che nella loro effigie si sono sostanziati per secoli; due opere che, senza snaturare il termine, definirei classiche – penso ai marmi mutilati di epoca romana del British Museum – impregnate di un simbolismo epigrafico e al contempo forte, profondamente lirico, tanto da sussurrare appena la propria presenza, mentre trascinano nella materia l’insostenibile zavorra della vita.
La testa è la struttura dove nascono i concetti; è la scatola aperta che, attraverso la riflessione, manipola l’ordine epidermico del volto caricandolo della corporeità vissuta, delle crepe profonde, dei buchi neri, dei bagliori accecanti, delle fratture scomposte e ricomposte con fatica dal tempo. I due adorati hanno occhi muti, rigonfi, scorticati, perforati dalla conoscenza o forse dalla scoperta dell’immutabile; la bocca e il naso sono lacerati, la fisionomia è calpestata, come se si trattasse di boxeur d'antan appena scesi dal ring dopo un incontro millenario. Sì, mille anni. L’inesorabile trascorrere del tempo, stilla a stilla, per determinare gli attimi che mancano alla fine; gocce che lasciano tracce levigate che lentamente trasformano in ferite aperte. Questi segni sono tipici dell’opera di Lello Torchia, che esplora le tensioni umane con uno stile discreto, essenziale, non oltrepassando mai il limite e in grossa parte riappacificandoci con la nostra intimità.
La testa è la struttura dove nascono i concetti; è la scatola aperta che, attraverso la riflessione, manipola l’ordine epidermico del volto caricandolo della corporeità vissuta, delle crepe profonde, dei buchi neri, dei bagliori accecanti, delle fratture scomposte e ricomposte con fatica dal tempo. I due adorati hanno occhi muti, rigonfi, scorticati, perforati dalla conoscenza o forse dalla scoperta dell’immutabile; la bocca e il naso sono lacerati, la fisionomia è calpestata, come se si trattasse di boxeur d'antan appena scesi dal ring dopo un incontro millenario. Sì, mille anni. L’inesorabile trascorrere del tempo, stilla a stilla, per determinare gli attimi che mancano alla fine; gocce che lasciano tracce levigate che lentamente trasformano in ferite aperte. Questi segni sono tipici dell’opera di Lello Torchia, che esplora le tensioni umane con uno stile discreto, essenziale, non oltrepassando mai il limite e in grossa parte riappacificandoci con la nostra intimità.