Marco Amore
Un’opera d’arte è quasi sempre una fiaba, o favola, malgrado fiaba e favola siano una forma d’arte. C’è sempre una morale dietro la superficie, anche quando la morale sembra essere la superficie, perfino se l’arte non vorrebbe averne una.
Nel 1865 Lewis Carrol pubblica Alice’s Adventures in Wonderland dove, se facciamo del libro un’allegoria dell’arte, la frase ‘In tutto c’è una morale, basta trovarla’ spoglia l’anima del suo segreto. Oppure, nell’ipotesi di morale come superficie, l’esempio lampante resta Moby Dick di Hermann Melville, a cominciare dal famoso incipit 'Chiamatemi Ismaele'.
Mi si potrebbe obbiettare che ho scelto due romanzi apertamente allegorici: lo ammetto, ma vi sfido a trovarne due altrettanto pragmatici – e non parlo di simbolismo. Chi scrive, di solito lo fa perché reputa necessario svelare qualcosa degli altri; tuttavia chi scrive è anche, inevitabilmente, un esibizionista: il risultato? Mille pagine per una frase: Gli unici scrittori impeccabili sono quelli che non hanno mai scritto.
Ma non siamo qui per parlare di libri. Il punto è che lo stesso vale per gli artisti in genere. Lo so io e lo sapete voi; lo sanno tutti quelli che sognano. Nel caso specifico di Lello Torchia, però, serve una precisazione. Infatti, pur leggendo tra le righe, noterete che non ci sono draghi né reami da liberare e che, nonostante il lupo, l’insieme manca di uno scenario fantastico.
Eppure difficilmente qualcuno penserebbe alla parabola. Al lupo come riflesso degli idealismi in cui nasciamo o degli esotismi che ogni giorno penetrano il nostro cuore. Forse nessuno penserebbe ai babau della modernità: al povero, all’immigrato, al gay che viene deriso e a chi lo continua a schernire a seconda dei punti di vista; alla religione come scienza, più che come scienza della fede.
Difficilmente qualcuno penserebbe ai film horror, sì, dove il lupo è la bestia che vive dentro di noi; il parassita che ci portiamo dentro oggi, dopo averlo osteggiato ieri, ma con lo stesso disgusto che proveremmo al pensiero di avere in corpo una tenia. Perché noi siamo il lupo tanto quanto siamo il Santo. Non possiamo ribellarci alla natura che ci appartiene perché le apparteniamo. Non possiamo tramutarci nel lupo senza poi piangere le lacrime del rimorso, perché abbiamo una coscienza. Ma forse possiamo venire a patti con noi stessi. Possiamo avere umiltà, accettare il compromesso. Esiste sempre una via di mezzo, e in medio stat virtus… dice una locuzione latina. L’opera esprime un concetto peraltro meraviglioso: voglio vivere in basso come l’acqua, che è uno dei principali insegnamenti del Tao. Ecco che la figura del Santo acquista corpo, forza e dunque identità – chi più di San Francesco ha messo in pratica un così profondo magistero; chi più di lui si è abbassato, come insegna anche Cristo nei vangeli. San Francesco: l’uomo che ha vissuto come un lupo, che ha dormito sulle rocce, che ha camminato tra i lebbrosi, che ha sposato la povertà. Ebbene l’arte sacra non è favola, ma parabola. E per di più, sapete, non in tutte le favole il lupo mangia i bambini.
Nel 1865 Lewis Carrol pubblica Alice’s Adventures in Wonderland dove, se facciamo del libro un’allegoria dell’arte, la frase ‘In tutto c’è una morale, basta trovarla’ spoglia l’anima del suo segreto. Oppure, nell’ipotesi di morale come superficie, l’esempio lampante resta Moby Dick di Hermann Melville, a cominciare dal famoso incipit 'Chiamatemi Ismaele'.
Mi si potrebbe obbiettare che ho scelto due romanzi apertamente allegorici: lo ammetto, ma vi sfido a trovarne due altrettanto pragmatici – e non parlo di simbolismo. Chi scrive, di solito lo fa perché reputa necessario svelare qualcosa degli altri; tuttavia chi scrive è anche, inevitabilmente, un esibizionista: il risultato? Mille pagine per una frase: Gli unici scrittori impeccabili sono quelli che non hanno mai scritto.
Ma non siamo qui per parlare di libri. Il punto è che lo stesso vale per gli artisti in genere. Lo so io e lo sapete voi; lo sanno tutti quelli che sognano. Nel caso specifico di Lello Torchia, però, serve una precisazione. Infatti, pur leggendo tra le righe, noterete che non ci sono draghi né reami da liberare e che, nonostante il lupo, l’insieme manca di uno scenario fantastico.
Eppure difficilmente qualcuno penserebbe alla parabola. Al lupo come riflesso degli idealismi in cui nasciamo o degli esotismi che ogni giorno penetrano il nostro cuore. Forse nessuno penserebbe ai babau della modernità: al povero, all’immigrato, al gay che viene deriso e a chi lo continua a schernire a seconda dei punti di vista; alla religione come scienza, più che come scienza della fede.
Difficilmente qualcuno penserebbe ai film horror, sì, dove il lupo è la bestia che vive dentro di noi; il parassita che ci portiamo dentro oggi, dopo averlo osteggiato ieri, ma con lo stesso disgusto che proveremmo al pensiero di avere in corpo una tenia. Perché noi siamo il lupo tanto quanto siamo il Santo. Non possiamo ribellarci alla natura che ci appartiene perché le apparteniamo. Non possiamo tramutarci nel lupo senza poi piangere le lacrime del rimorso, perché abbiamo una coscienza. Ma forse possiamo venire a patti con noi stessi. Possiamo avere umiltà, accettare il compromesso. Esiste sempre una via di mezzo, e in medio stat virtus… dice una locuzione latina. L’opera esprime un concetto peraltro meraviglioso: voglio vivere in basso come l’acqua, che è uno dei principali insegnamenti del Tao. Ecco che la figura del Santo acquista corpo, forza e dunque identità – chi più di San Francesco ha messo in pratica un così profondo magistero; chi più di lui si è abbassato, come insegna anche Cristo nei vangeli. San Francesco: l’uomo che ha vissuto come un lupo, che ha dormito sulle rocce, che ha camminato tra i lebbrosi, che ha sposato la povertà. Ebbene l’arte sacra non è favola, ma parabola. E per di più, sapete, non in tutte le favole il lupo mangia i bambini.