Giuseppe Rago
Lello Torchia attinge alla sua innata capacità di percezione del senso ultimo delle cose, di scandaglio dei recessi più profondi della conoscenza, con uno spirito di ricerca insieme audace e consapevole, per proiettarsi su una traccia avanzatissima di comunicazione esperita attraverso il "fare" pittorico.
Con questi suoi ultimissimi lavori egli dimostra ancora una volta di più di saper guardare al passato della storia della pittura e al suo stesso percorso di ricerca precedente, destrutturandolo e ricomponendo i dati, le acquisizioni di partenza, in una sintesi assolutamente inedita, spiazzante quasi, ma non per questo meno sconvolgentemente potente.
Un risultato, c'è da aggiungere, in cui manifestazione dell'immagine, innovazione tecnica e del procedimento esecutivo fanno corpo unico come mai prima d'ora. L'idea è quella della visualizzazione dell'immagine, metaforica e archetipica insieme, del labirinto; un percorso mentale, ma pure esistenziale, la riduzione a segno di un groviglio emotivo, significativamente destinato a non trovare soluzione se non districando se stesso.
La riconoscibilità della forma viene manipolata sino alle soglie della sua dissoluzione; la testa dell'uomo, sintomo e simbolo totemico del pensiero per tutto il corso della storia figurativa della civiltà occidentale, si materializza, grazie alla pratica - ormai consolidata e sapiente - del frottage, come impronta impalpabile e icastica insieme sulla preparazione del fondo della tela o della carta. Una apposizione di velature cromatiche, apparentemente casuale, in realtà meditatissima anche se modulata sui tempi brevi del procedimento tecnico, sembra svelare occultando la traccia labirintica della grafite e della sanguigna.
Sono opere che impongono tempi specifici; il guazzo, usato in maniera ormai preferenziale, è una tecnica veloce che, d'altro canto, consente aggiunte e rapide sottrazioni. Una pittura i cui tempi, per la combinazione di tecniche e metodologie operative, coincidono specularmente con quelli dell'ispirazione, consentendo un risultato assolutamente coerente e serrato.
La sensazione più evidente, poi, è che il rapporto tra l'artista e l'opera, attraverso l'intervento sul supporto, non possa esistere senza la presenza di una mediazione. Il frottage trova l'interpolazione sulla carta, il gesto pittorico si smorza per il suo tramite in una sovrapposizione di tono appena percepibile; si intuisce, allora, l'intenzione costante di "scaricare" il segno, assottigliando risolutamente il peso specifico della materia.
L'idea avanzata di questi lavori è quella di una residua definizione formale, ormai quasi interamente coincidente con la totalità della superficie pittorica, su cui nasce per una sorta di gemmazione concettuale una visualizzazione del meandro nel quale le idee e l'esistenza sono insieme inestricabilmente connesse.
Lello Torchia, in realtà, assai sottilmente tende a innescare una sollecitazione visiva in colui che guarda, ottenuta attraverso un controllo tecnico sapientissimo della sedimentazione pittorica, della diversa densità e profondità della materia; sollecitazione finalizzata, in verità, a penetrare gli strati più intimi della percezione, fino ad ottenere il disvelamento della sua significazione ultima, impressa nella testa dell'uomo, la cui consistenza evanescente testimonia dell'ardua conquista sapienziale, dell'orientamento virtuoso e impervio attraverso i sentieri del pensiero e dell'inconscio. E si tratta di lavori che vivono attraverso il passaggio in una duplice dimensione temporale: il tempo del lavoro pittorico nel suo stesso farsi, serrato e vincolato, e il tempo dilatato della comprensione di senso. Opere pregne di una stratificazione che, seppure complessa, riesce a prescindere dalla correlata necessità di un addensamento materico progressivo, liberandosi dagli impacci di una corporeità inerte e librandosi con rarissima levità.
E', in realtà, un'idea presentata con la consueta eleganza e rarefazione formale; il processo di coperture e parziali sottrazioni conduce ad una lettura meditata, metabolizzata della coscienza, stratificata quanto la pittura stessa; una pittura sovrapposta quasi per celia, per serenità e rigore di metodo, per imprescindibile esigenza di introspezione.
Sono, questi, lavori che recano con sé la traccia di uno scavo gnoseologico progressivo, la visualizzazione di un percorso di riduzione all'essenza e, d'altro canto, lo stesso traguardo ultimo di questo percorso; assieme all'impronta umana ci appare incontro il senso riposto della sua esistenza, come emergendo da un liquido amniotico e fertile. La figuratività è un'ombra labile, ma al tempo stesso come catturata nell'attimo di una sua balenante - e perciò tanto più preziosa - emersione dalle regioni inconsapevoli del pensiero.
Il vecchio tema, quello schiettamente classico e antinomico del rapporto tra la stasi e il movimento si ripropone qui in termini più sottilmente concettuali nel contrasto tra le progressive profondità, tra la poderosa staticità dell'immagine e la la volatilità della stratificazione; o anche tra l'apparente esteriore fissità del volto umano e il percorso frenetico, labirintico appunto, del pensiero. Antinomia ancora più raffinata ed evidente tra le pennellate di colore dalla consistenza gestuale e dinamica e la forza di attrazione centripeta, focalizzante della traccia del labirinto.
Appare, insomma, uno stile minimale, asciutto ed essenziale, in cui la rinuncia e la sottrazione divengono forza e pregnanza. Un rigore quasi ascetico, perseguito lungo il crinale di un'idea nobilissima e al tempo stesso assai ardua; quella secondo cui la materia è impaccio gravoso rispetto ad una epifania di senso che pure, per essere, nelle pieghe stesse della materia ha bisogno di essere inverata.
Con questi suoi ultimissimi lavori egli dimostra ancora una volta di più di saper guardare al passato della storia della pittura e al suo stesso percorso di ricerca precedente, destrutturandolo e ricomponendo i dati, le acquisizioni di partenza, in una sintesi assolutamente inedita, spiazzante quasi, ma non per questo meno sconvolgentemente potente.
Un risultato, c'è da aggiungere, in cui manifestazione dell'immagine, innovazione tecnica e del procedimento esecutivo fanno corpo unico come mai prima d'ora. L'idea è quella della visualizzazione dell'immagine, metaforica e archetipica insieme, del labirinto; un percorso mentale, ma pure esistenziale, la riduzione a segno di un groviglio emotivo, significativamente destinato a non trovare soluzione se non districando se stesso.
La riconoscibilità della forma viene manipolata sino alle soglie della sua dissoluzione; la testa dell'uomo, sintomo e simbolo totemico del pensiero per tutto il corso della storia figurativa della civiltà occidentale, si materializza, grazie alla pratica - ormai consolidata e sapiente - del frottage, come impronta impalpabile e icastica insieme sulla preparazione del fondo della tela o della carta. Una apposizione di velature cromatiche, apparentemente casuale, in realtà meditatissima anche se modulata sui tempi brevi del procedimento tecnico, sembra svelare occultando la traccia labirintica della grafite e della sanguigna.
Sono opere che impongono tempi specifici; il guazzo, usato in maniera ormai preferenziale, è una tecnica veloce che, d'altro canto, consente aggiunte e rapide sottrazioni. Una pittura i cui tempi, per la combinazione di tecniche e metodologie operative, coincidono specularmente con quelli dell'ispirazione, consentendo un risultato assolutamente coerente e serrato.
La sensazione più evidente, poi, è che il rapporto tra l'artista e l'opera, attraverso l'intervento sul supporto, non possa esistere senza la presenza di una mediazione. Il frottage trova l'interpolazione sulla carta, il gesto pittorico si smorza per il suo tramite in una sovrapposizione di tono appena percepibile; si intuisce, allora, l'intenzione costante di "scaricare" il segno, assottigliando risolutamente il peso specifico della materia.
L'idea avanzata di questi lavori è quella di una residua definizione formale, ormai quasi interamente coincidente con la totalità della superficie pittorica, su cui nasce per una sorta di gemmazione concettuale una visualizzazione del meandro nel quale le idee e l'esistenza sono insieme inestricabilmente connesse.
Lello Torchia, in realtà, assai sottilmente tende a innescare una sollecitazione visiva in colui che guarda, ottenuta attraverso un controllo tecnico sapientissimo della sedimentazione pittorica, della diversa densità e profondità della materia; sollecitazione finalizzata, in verità, a penetrare gli strati più intimi della percezione, fino ad ottenere il disvelamento della sua significazione ultima, impressa nella testa dell'uomo, la cui consistenza evanescente testimonia dell'ardua conquista sapienziale, dell'orientamento virtuoso e impervio attraverso i sentieri del pensiero e dell'inconscio. E si tratta di lavori che vivono attraverso il passaggio in una duplice dimensione temporale: il tempo del lavoro pittorico nel suo stesso farsi, serrato e vincolato, e il tempo dilatato della comprensione di senso. Opere pregne di una stratificazione che, seppure complessa, riesce a prescindere dalla correlata necessità di un addensamento materico progressivo, liberandosi dagli impacci di una corporeità inerte e librandosi con rarissima levità.
E', in realtà, un'idea presentata con la consueta eleganza e rarefazione formale; il processo di coperture e parziali sottrazioni conduce ad una lettura meditata, metabolizzata della coscienza, stratificata quanto la pittura stessa; una pittura sovrapposta quasi per celia, per serenità e rigore di metodo, per imprescindibile esigenza di introspezione.
Sono, questi, lavori che recano con sé la traccia di uno scavo gnoseologico progressivo, la visualizzazione di un percorso di riduzione all'essenza e, d'altro canto, lo stesso traguardo ultimo di questo percorso; assieme all'impronta umana ci appare incontro il senso riposto della sua esistenza, come emergendo da un liquido amniotico e fertile. La figuratività è un'ombra labile, ma al tempo stesso come catturata nell'attimo di una sua balenante - e perciò tanto più preziosa - emersione dalle regioni inconsapevoli del pensiero.
Il vecchio tema, quello schiettamente classico e antinomico del rapporto tra la stasi e il movimento si ripropone qui in termini più sottilmente concettuali nel contrasto tra le progressive profondità, tra la poderosa staticità dell'immagine e la la volatilità della stratificazione; o anche tra l'apparente esteriore fissità del volto umano e il percorso frenetico, labirintico appunto, del pensiero. Antinomia ancora più raffinata ed evidente tra le pennellate di colore dalla consistenza gestuale e dinamica e la forza di attrazione centripeta, focalizzante della traccia del labirinto.
Appare, insomma, uno stile minimale, asciutto ed essenziale, in cui la rinuncia e la sottrazione divengono forza e pregnanza. Un rigore quasi ascetico, perseguito lungo il crinale di un'idea nobilissima e al tempo stesso assai ardua; quella secondo cui la materia è impaccio gravoso rispetto ad una epifania di senso che pure, per essere, nelle pieghe stesse della materia ha bisogno di essere inverata.