Giuseppe Rago
|
from Lello Torchia (monograph).
|
Quando mi è stato chiesto lo sforzo di una rievocazione storico critica del rapporto tra il pittore e la sua modella (o il suo modello) ho d'istinto lasciato scorrere davanti agli occhi della mia mente le pagine più belle della storia dell'arte che, senza necessità di parole, sanno parlarci in questo senso. All'entusiasmo della bellezza evocata s'è aggiunta subito perciò la consapevolezza del rischio di una sterile elencazione di nomi e attitudini. Una elencazione che sarebbe facilmente risultata pressoché inefficace rispetto all'obiettivo della contestualizzazione di un lavoro tanto raffinato, quanto lontano da ogni facile etichettatura come quello del mio amico Lello Torchia.
Ma tant'è, correrò il rischio, tanto grande è il fascino della proposta; e dirò subito questo: il rapporto tra il pittore e il suo modello è la storia del legame controverso e contraddittorio tra l'artista e il suo doppio, la storia di uno sforzo titanico di identificazione, contrapposizione e rappresentazione (quasi come tesi, antitesi e sintesi della parabola estetica), la sublimazione del privato, divenuto manifesto di poetica e oggettualizzazione della bellezza. E parlo di modello appunto (e non di modella), non per voler alla fine eludere il tema della mostra, ma anzi per affrontarlo più risolutamente, intendendo con esso una accezione più ampia, profonda e allo stesso tempo circostanziata del termine. Modello come archetipo perciò, pietra di paragone, paradigma della propria mancata perfezione.
La rappresentazione di un individuo (rispetto alla quale più congruamente è possibile parlare di esistenza di una modella o di un modello), coincide dunque non casualmente con il massimo sforzo di autoconsapevolezza concettuale dell'artista davanti al mondo. Così nel profilo di Lionello d'Este o in quello (purissimo, indimenticabile) di una ignota principessa vedo sigillato con forza inappellabile e grandiosa l'ideale estetico di Pisanello, di tale commovente nobiltà, canto del cigno limpidissimo di una civiltà già scomparsa.
E se non casuale appare la stereotipia ideale degli eroici titani del Rinascimento aurorale (perché tutta tesa all'affermazione di un tipo assoluto, di una categoria estetica atemporale) è all'interno di questo sforzo che amo rintracciare la piega in cui il particolare si salda all'universale, in cui tra le linee della forma umana ideale si scorge la traccia di una persona nota, o cara; e penso al marmo di Desiderio da Settignano, che all'improvviso diventa la pelle già conosciuta e amata di una donna forse perduta.
Ma il rapporto tra il pittore e la modella non vuol dire solo o banalmente rappresentazione di sé o della propria poetica attraverso le linee di un corpo in qualche modo, spesso misteriosamente, conosciuto; prima della rappresentazione si pone, dicevo, il processo di identificazione e contrapposizione tra il sé e il suo doppio, tra l'uomo e l'altro; così l'identificazione diventa vita privata, fagocitante passione personale, itinerario dell'eros e del possesso e poi della ripulsa e dell'abbandono. A voler scansare ogni rischio o solo sospetto di voyerismo dirò subito che nel nudo si configura una delle più grandiose sublimazioni estetiche che la storia dell'arte conosca; il nudo essendo per eccellenza la traccia lungo la quale il particolare si salda con l'universale e spesso con i crinali più arditi della sperimentazione in arte; così la nuda Venere, di cui Botticelli narra la nascita, diviene l'emblema lungo il quale l'artista incarna una ricerca lineare puntuale e al tempo stesso equilibrata, lontano dalle esasperazioni di un certo grafismo sperimentale coevo; il corpo su cui, per intenderci, appare forse per la prima volta la tradizione già classica del disegno fiorentino; e parimenti è sul corpo nudo della sua Venere che Giorgione istruisce il suo teorema della costruzione di spazio e forma attraverso il colore. Persone magnificamente concrete, certo, la Madonna Salting di Antonello o il vetusto doge Loredan bellibiano, eppure saldissime, incrillabili costruzioni di luce, colore e forme, l'asserzione più salda della consapevolezza umanistica. Cecilia Gallerani presta certo il suo nome ad una architettura spiraliforme tesa alla conquista dello spazio; e tuttavia rimane imperituramente donna dal fascino che pure Leonardo dovette avvertire profondamente. E pure nell'immagine grandiosamente opulenta di una Schiavona palpita una maliziosa, morbida e malcelata sensualità, ma su di essa si innerva anche l'inedita declinazione del luminismo giorgionesco in forme ampie e drammaticamente concrete. E allo stesso tempo vi potranno anche dire di quel nodo d'angeli indimenticabile che Michelangelo da Caravaggio pone in cima alle Sette Opere di Misericordia; di quell'epifania di luce nell'ombra. Eppure non mi sfugge che quell'angelo là, a sinistra, è anche giovane ragazzo, fugace passione divorata dei vicoli di Forcella, che coricato sul letto si mantiene in equilibrio con una mano poggiata per terra (e testimoni ne sono i muscoli guizzanti del braccio vigoroso); anche questo è il nodo di "luce formante" che pare catapultarsi dal cielo sulla terra e sulla disperazione degli uomini. Ora, alla luce di tutto questo, potrei sbagliare, ma mi sembra che Lello compia uno sforzo assolutamente inedito; non solo egli da corpo, viso, sostanza al pittore, con quella curiosa rappresentazione del "pittore strabico", in realtà raffinatissima pausa d'ombra nella preziosità più generale di un'ocra insieme sontuoso e minimo; istruisce inoltre tra quest'ultimo e la modella una rapporto di tensioni attraverso l'atto stesso di porre il quadro alla parete. Egli crea e contemporaneamente osserva ciò che immediatamente gli diventa estraneo, così come plasma la forma e subito la ottunde con quel miracolo di velature encaustiche e disvelamenti progressivi che di lui abbiamo imparato ad amare; compie cioè una mirabile opera di raffreddamento istantaneo della temperatura emotiva che gli consente di porre davanti agli occhi nostri e suoi stessi un rapporto immediatamente estraneo. E' quasi una sorta di rispecchiamento del rispecchiamento dunque: il primo quello di Lello (e nostro insieme), l'altro quello consueto tra il pittore e il suo doppio (o altro da sé), la modella cioè.
Le pareti della mostra diventano la materia vivente di quei poli dialettici di identificazione e contrapposizione di cui dicevo prima; Lello cioè riesce nello scopo ultimo di porci nel mezzo di quel campo magnetico esaminato con occhi appassionati, ma al tempo stesso rigorosi, "a ciglio asciutto". E lo fa grazie a un raro equilibrio formale (interno cioè alla sostanza del singolo quadro) e, appunto, dinamico-dialettico (relativo al rapporto tra le opere in una mostra audacemente intesa come installazione complessiva).
Già prima qualcuno (e penso a Velasquez) ci aveva posto di fronte alla rappresentazione non soltanto dei propri modelli, ma anche di sé, di pittore alla fine uscito da dietro le quinte. Era tuttavia pur sempre un porre innanzi al riguardante. Oggi Lello Torchia ci pone invece nell'occhio del ciclone e precisamente nella congiuntura esatta della traslazione tra corpo e forma, tra l'umano e l'arte, tra il materiale e l'immaginario, passione e stasi. E come nell'occhio del ciclone regna la calma assoluta, così di tutto ciò sentiamo la forza portentosa e vorticosa; e tuttavia nella sospensione del tempo, dei suoni e delle parole inutili della vita, nell'incantata quiescenza dell'immaginazione guardiamo con gli occhi del fuori ciò che, senza accorgercene, già permea la nostra stessa pelle sensitiva e intellettiva.
Ma tant'è, correrò il rischio, tanto grande è il fascino della proposta; e dirò subito questo: il rapporto tra il pittore e il suo modello è la storia del legame controverso e contraddittorio tra l'artista e il suo doppio, la storia di uno sforzo titanico di identificazione, contrapposizione e rappresentazione (quasi come tesi, antitesi e sintesi della parabola estetica), la sublimazione del privato, divenuto manifesto di poetica e oggettualizzazione della bellezza. E parlo di modello appunto (e non di modella), non per voler alla fine eludere il tema della mostra, ma anzi per affrontarlo più risolutamente, intendendo con esso una accezione più ampia, profonda e allo stesso tempo circostanziata del termine. Modello come archetipo perciò, pietra di paragone, paradigma della propria mancata perfezione.
La rappresentazione di un individuo (rispetto alla quale più congruamente è possibile parlare di esistenza di una modella o di un modello), coincide dunque non casualmente con il massimo sforzo di autoconsapevolezza concettuale dell'artista davanti al mondo. Così nel profilo di Lionello d'Este o in quello (purissimo, indimenticabile) di una ignota principessa vedo sigillato con forza inappellabile e grandiosa l'ideale estetico di Pisanello, di tale commovente nobiltà, canto del cigno limpidissimo di una civiltà già scomparsa.
E se non casuale appare la stereotipia ideale degli eroici titani del Rinascimento aurorale (perché tutta tesa all'affermazione di un tipo assoluto, di una categoria estetica atemporale) è all'interno di questo sforzo che amo rintracciare la piega in cui il particolare si salda all'universale, in cui tra le linee della forma umana ideale si scorge la traccia di una persona nota, o cara; e penso al marmo di Desiderio da Settignano, che all'improvviso diventa la pelle già conosciuta e amata di una donna forse perduta.
Ma il rapporto tra il pittore e la modella non vuol dire solo o banalmente rappresentazione di sé o della propria poetica attraverso le linee di un corpo in qualche modo, spesso misteriosamente, conosciuto; prima della rappresentazione si pone, dicevo, il processo di identificazione e contrapposizione tra il sé e il suo doppio, tra l'uomo e l'altro; così l'identificazione diventa vita privata, fagocitante passione personale, itinerario dell'eros e del possesso e poi della ripulsa e dell'abbandono. A voler scansare ogni rischio o solo sospetto di voyerismo dirò subito che nel nudo si configura una delle più grandiose sublimazioni estetiche che la storia dell'arte conosca; il nudo essendo per eccellenza la traccia lungo la quale il particolare si salda con l'universale e spesso con i crinali più arditi della sperimentazione in arte; così la nuda Venere, di cui Botticelli narra la nascita, diviene l'emblema lungo il quale l'artista incarna una ricerca lineare puntuale e al tempo stesso equilibrata, lontano dalle esasperazioni di un certo grafismo sperimentale coevo; il corpo su cui, per intenderci, appare forse per la prima volta la tradizione già classica del disegno fiorentino; e parimenti è sul corpo nudo della sua Venere che Giorgione istruisce il suo teorema della costruzione di spazio e forma attraverso il colore. Persone magnificamente concrete, certo, la Madonna Salting di Antonello o il vetusto doge Loredan bellibiano, eppure saldissime, incrillabili costruzioni di luce, colore e forme, l'asserzione più salda della consapevolezza umanistica. Cecilia Gallerani presta certo il suo nome ad una architettura spiraliforme tesa alla conquista dello spazio; e tuttavia rimane imperituramente donna dal fascino che pure Leonardo dovette avvertire profondamente. E pure nell'immagine grandiosamente opulenta di una Schiavona palpita una maliziosa, morbida e malcelata sensualità, ma su di essa si innerva anche l'inedita declinazione del luminismo giorgionesco in forme ampie e drammaticamente concrete. E allo stesso tempo vi potranno anche dire di quel nodo d'angeli indimenticabile che Michelangelo da Caravaggio pone in cima alle Sette Opere di Misericordia; di quell'epifania di luce nell'ombra. Eppure non mi sfugge che quell'angelo là, a sinistra, è anche giovane ragazzo, fugace passione divorata dei vicoli di Forcella, che coricato sul letto si mantiene in equilibrio con una mano poggiata per terra (e testimoni ne sono i muscoli guizzanti del braccio vigoroso); anche questo è il nodo di "luce formante" che pare catapultarsi dal cielo sulla terra e sulla disperazione degli uomini. Ora, alla luce di tutto questo, potrei sbagliare, ma mi sembra che Lello compia uno sforzo assolutamente inedito; non solo egli da corpo, viso, sostanza al pittore, con quella curiosa rappresentazione del "pittore strabico", in realtà raffinatissima pausa d'ombra nella preziosità più generale di un'ocra insieme sontuoso e minimo; istruisce inoltre tra quest'ultimo e la modella una rapporto di tensioni attraverso l'atto stesso di porre il quadro alla parete. Egli crea e contemporaneamente osserva ciò che immediatamente gli diventa estraneo, così come plasma la forma e subito la ottunde con quel miracolo di velature encaustiche e disvelamenti progressivi che di lui abbiamo imparato ad amare; compie cioè una mirabile opera di raffreddamento istantaneo della temperatura emotiva che gli consente di porre davanti agli occhi nostri e suoi stessi un rapporto immediatamente estraneo. E' quasi una sorta di rispecchiamento del rispecchiamento dunque: il primo quello di Lello (e nostro insieme), l'altro quello consueto tra il pittore e il suo doppio (o altro da sé), la modella cioè.
Le pareti della mostra diventano la materia vivente di quei poli dialettici di identificazione e contrapposizione di cui dicevo prima; Lello cioè riesce nello scopo ultimo di porci nel mezzo di quel campo magnetico esaminato con occhi appassionati, ma al tempo stesso rigorosi, "a ciglio asciutto". E lo fa grazie a un raro equilibrio formale (interno cioè alla sostanza del singolo quadro) e, appunto, dinamico-dialettico (relativo al rapporto tra le opere in una mostra audacemente intesa come installazione complessiva).
Già prima qualcuno (e penso a Velasquez) ci aveva posto di fronte alla rappresentazione non soltanto dei propri modelli, ma anche di sé, di pittore alla fine uscito da dietro le quinte. Era tuttavia pur sempre un porre innanzi al riguardante. Oggi Lello Torchia ci pone invece nell'occhio del ciclone e precisamente nella congiuntura esatta della traslazione tra corpo e forma, tra l'umano e l'arte, tra il materiale e l'immaginario, passione e stasi. E come nell'occhio del ciclone regna la calma assoluta, così di tutto ciò sentiamo la forza portentosa e vorticosa; e tuttavia nella sospensione del tempo, dei suoni e delle parole inutili della vita, nell'incantata quiescenza dell'immaginazione guardiamo con gli occhi del fuori ciò che, senza accorgercene, già permea la nostra stessa pelle sensitiva e intellettiva.