LELLO TORCHIA
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Luigi Auriemma

Intervista a Lello Torchia


Caro Lello, nella tua ricerca artistica utilizzi varie tecniche e forme espressive (disegno, pittura, collage, scultura, installazione, ecc…), che padroneggi tutte con maestria, ma quale è quella che più preferisci e in base a cosa ne scegli una.

Il disegno è senz’altro il mio linguaggio d’elezione. E’ come il linguaggio che si ripete nella testa spontaneamente, che si parla inconsapevolmente durante i sogni: per me il disegno è come la lingua madre. E’ la forma che mi aiuta a comprendere le cose, una sorta di passe-partout per entrare nelle intenzioni. Poi c’è l’aspetto "ideologico": storicamente, si è sempre considerato il disegno come l’atto preparatorio di un’opera successiva, qualcosa da rettificare, un’opera non risolta. Per me questo ragionamento non ha valore; ma il "giudizio sospeso", quella considerazione in bilico tra essere e non essere, mi attrae – forse per la mia propensione verso tutto ciò che è instabile.
Per quanto riguarda la scelta della tecnica, molto dipende dallo spazio che accoglierà l’opera che devo realizzare; tuttavia, se una mostra intera o un intervento specifico può essere risolto esclusivamente col segno, evito di "complicare" il lavoro.
Comunque, la giornata in studio inizia generalmente col gesto semplice di fare la punta a una matita... 


I tuoi disegni sono caratterizzati da un tratto veloce, scattante, dinamico, frenetico, con una certa nota di violenza, accompagnato poi da un segno leggero, libero e molto delicato (nei contorni per esempio). È come se inizialmente ci fosse una tensione introiettata, una molla che scatta e che proietta sulla superficie (tela, carta, argilla o altro) questa forza, che si risolve in pochi minuti e che una volta espressa, diventa segno libero, leggero e lirico. Da dove si origina questa dicotomia espressiva?

E’ frutto di una azione meccanica. Nei lavori su carta, ad esempio, ho riscoperto l’uso della gomma pane, quella che da ragazzo ti insegnano a non usare perché “è sbagliato cancellare”. La utilizzo come fosse una matita: per fare dei segni, per consumare la carta, per bucarla o anche per sgravare un tratto molto inciso e liberarlo nello spazio. Ho la necessità di rivelare il processo del lavoro e di vedere più forme all’interno della stessa forma. Accade lo stesso quando utilizzo l’argilla: modello con insistenza per poi cancellare col palmo della mano le forme definite. Le due azioni sono l’una conseguenza dell’altra. 

Nelle tue opere tratti temi dell’esistere e dell’esistenza, il percorso della vita, dalla nascita alla morte, e tutto ciò ad essa connessa, trattati con una spiritualità che sfiora il sacro ma che non si conferma solo in esso. Le tue origini napoletane affondano le radici nella cultura secolare partenopea, dove sono confluite varie culture di popoli provenienti principalmente da tutto il bacino del mediterraneo. Queste, che attraversano leggende popolari miste a mito e storia, tra sacro e profano, tra religione cattolica e paganesimo, in che modo hanno determinato il tuo percorso artistico? 

L’esistenza stessa è uno dei veicoli privilegiati per esplorare il sacro, e chi fa il nostro lavoro, ha la possibilità di evocare una "sacralità fluida" attraverso forme e segni. Liberato dalla gabbia di una specifica religione, il sacro diventa universale: non è più un’entità separata, ma una lente d’ingrandimento capace di farci osservare ogni cosa in maniera nuova, svelandone l’intensità nascosta. Il sacro non lo identifico con un luogo specifico, piuttosto con un’area di tensione, un campo aperto che conferisce efficacia a ciò che altrimenti potrebbe sembrare trascurabile e marginale. Napoli stessa è una tensione: è margine, confine, profilo, è al tempo stesso inizio e fine, dove l’intangibile non ha bisogno di templi o cattedrali. 

I tuoi volti, con particolari anatomici appena accennati o completamente trasfigurati, esprimono un dolore atavico che si è accumulato nei secoli. Espressioni senza identità fisica ma che si riconosce in un’identità di dolore esistenziale, come se questa identità drammatica collimasse con l’unica possibile identità della condizione umana a cui, questi volti, sembrano cercare un riscatto, in cerca di una liberazione esistenziale: mi illumini su questo concetto?

E’ sulla faccia e negli occhi che restano impressi i momenti vissuti da ogni essere umano. Personalmente, è proprio lì che vedo queste tracce, ed è lì che esploro, navigandoci attorno finché trovo un punto di ingresso. Quei segni non sono necessariamente drammatici, ma hai ragione quando parli di “accumulato nei secoli”. A me interessano le forme che esprimono questo "accumulo", piuttosto che quelle pure, levigate. Amici che si occupano di teatro o di scrittura mi hanno fatto notare come spesso ci si aspetti di scorgere una luce nel buio di una storia, mentre nel mio lavoro questa speranza sembra mancare. Rispondo dicendo che, nel mio lavoro, ciò che manca è innanzitutto il racconto; c’è un sedimento, un’incrostazione. Non c’è ragione di avere un lieto fine o un epilogo negativo, l’opera è aperta. 

Perché le tue sculture rappresentano sempre frammenti del corpo? 

Quando visito un museo, le opere che mi restano negli occhi sono le statue giunte fino a noi mancanti di alcune parti, generalmente le mani, la testa o i piedi. Sono le parti più fragili. Queste privazioni rendono terrene quelle montagne di marmo, che invece percepisco come distanti quando sono integre. Trovo più respingente un corpo intero, con la sua fisicità ingombrante, rispetto a una mano; ma capisco che, per la maggior parte delle persone, può essere il contrario. Tutto ciò che manca o che resta come residuo apre al dubbio, alla riflessione: non mi lascia indifferente. La mancanza, l’imperfezione, indica un limite, e la natura stessa dell’uomo è "modellata" nella sua limitatezza, nella sua incontrovertibile finitezza. 

Un altro tema presente nelle tue opere è quello della protezione; dove non c’è riscatto tu tenti una sorta di protezione. Mi riferisco ad opere del progetto “Corner”, dove poni un angolo disegnato davanti ai volti rappresentati; come se fosse una specie di maschera, nel caso di una crisi d’identità del genere umano, o una barriera di protezione per pericoli esterni? 

Il ciclo di lavori a cui fai riferimento risale al 2019 e si collega anche alle opere realizzate per la personale “Refugio” del 2021, tenutasi a Napoli nel Claustro dell’Università Suor Orsola Benincasa. La mostra comprendeva sia opere su carta che lavori tridimensionali e nasceva da quel sentimento contraddittorio che scaturisce dalla visione di un angolo o di uno spazio claustrale, se associato ad un essere umano.
Cercare riparo in un luogo appartato è una forma di protezione: siamo sempre alla ricerca di conforto, ma trovarsi “all’angolo” è una condizione opprimente, da cui uscire può essere estremamente difficile.
L’ex pugile e poi editore Tullio Pironti ripeteva spesso “E’ il momento più complicato del match”. I lavori di “Corner” nascono in parte delle chiacchierate a tavola con lui. Del resto è comune sentire che la box è una metafora della vita. Poi, in quei mesi, è intervenuto il covid, e alla spinta originaria si sono aggiunte nuove risorse, suggestioni dirompenti e inesplorate, che hanno mutato più volte le mie intenzioni iniziali. 

Nel tuo periodo di formazione quali sono stati i tuoi riferimenti artistici, filosofici e spirituali? 

Ho iniziato a prendere coscienza del mio lavoro verso la fine degli studi all’Accademia di Belle Arti. In quel periodo frequentavo le gallerie napoletane, inizialmente per pura curiosità, e visitavo spesso gli studi di alcuni artisti che anche tu hai frequentato, come Marisa Albanese, Augusto Perez, Riccardo Dalisi e, successivamente, Nino Longobardi. Ricordo chiaramente una mostra di Beuys alla galleria Lucio Amelio: non rammento l’anno, ma c’erano forse tre o quattrocento persone all’inaugurazione e nel caos totale, senza aria, sentii la voce di quei lavori. Mormoravano qualcosa che non comprendevo chiaramente, ma per me fu un momento molto importante, quasi una rivelazione. Un’esperienza simile è stata quando ho avuto, anni dopo, l’occasione di vedere contemporaneamente più opere di Gastone Novelli: lo spazio sospeso dei suoi lavori continua a essere per me un principio costante.
Nel ’93 cominciai a frequentare il poeta Michele Sovente. Era un visionario, ma coi piedi ben piantati nella terra. Voltava e rivoltava l’essere umano come un calzino, facendoti immaginare assieme l’alto e il basso delle cose. Era generoso, fino all’ultimo non ha lesinato consigli.
Contemporaneamente ho cominciato a collaborare con Nino Longobardi: aveva bisogno di aiuto per un trasloco di studio da Napoli a Pozzuoli, ma alla fine mi sono ritrovato a condividere con lui azioni e riflessioni per quasi dieci anni. Ancora oggi c’è un grande legame.
Gli incontri con Sovente e Longobardi senz’altro hanno creato una discontinuità e smosso in maniera radicale il mio "orientamento".

legal                                                    © LELLO TORCHIA 2024

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